L’imbroglio delle “classifiche delle Università”

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Atenei, tempo di classifiche, uno strumento importante per le scelte dei neo diplomati. La più recente è quella del Censis, che mette gli atenei del Sud nelle ultime posizioni. Ma con quali criteri?

La classifica Censis si basa sull’offerta di servizi: borse di studio, strutture, servizi digitali, internazionalizzazione. Mette sullo stesso piano le strutture disponibili, e “come è fatto il sito web”. Nulla riferisce sulla qualità dei professori. Soprattutto, dà grande importanza all’occupabilità: cioè alla percentuale di laureati che ad un anno dalla laurea ha trovato occupazione.
L’occupabilità è nota a chi si interessa di fondi universitari: nelle assegnazioni agli atenei si usa da anni e per come viene utilizzata si è trasformata in una sorta di regionalismo differenziato in ambito universitario. Le classifiche che usa il MIUR per i fondi sono stilate dall’agenzia ANVUR (bisognerebbe discuterne, per denunciarne faziosità e inutilità), in modo da penalizzare chi è nelle ultime posizioni, e premiare chi è in testa. Indovinate? “Avrete più soldi se … migliorerete”. E come si fa, senza soldi? Più soldi, migliore classifica, ancora più soldi.
Ma l’occupabilità misura davvero la qualità della didattica e della ricerca o la preparazione degli studenti? La verità è che è legata in modo diretto alla qualità del tessuto economico-produttivo-sociale del territorio in cui ha sede l’Ateneo, perché è questo che garantisce maggiori possibilità di lavoro.

Borse di studio. Lo stato dà soldi in proporzione a quanti ne eroga la Regione nei suoi Atenei, non in base a quanti studenti ne hanno diritto. Se una Regione per dimenticanza (!) o scelta politica di bilancio decide, sbagliando, di assegnare poco o nulla per le borse, il corrispondente finanziamento statale si abbassa, e di molto.

In conclusione, si può dire che le classifiche redatte in questo modo finiscono per aggravare il gap Sud-Nord: in base a queste informazioni gli studenti del Sud vanno in atenei del Centro-Nord, i quali avranno di conseguenza più studenti e più soldi (come tasse e come fabbisogno riconosciuto dal governo) per migliorare la qualità dei servizi; qualità che l’anno dopo sarà ancora migliore. Senza contare che (dato SviMez) i circa 150mila studenti del Sud che ogni anno vanno al Nord accrescono il PIL del Nord di vari miliardi (gli studenti del Sud pagano affitti, mangiano, si divertono, si vestono, ecc …, spendendo i soldi del Sud, favorendo l’economia del Nord). Pensiamoci.