Questa pandemia sta sollevando tanti coperchi. È stata più volte indicata la perversa relazione con l’ambiente violentato. Si è parlato anche della sordità che noi stessi ci siamo autoimposti verso le voci dell’ interiorità.
L’epitaffio che circola in rete sulla generazione che mesta, silenziosa e umile se ne sta andando sotto i colpi del Covid, ci sbatte il muso di fronte al rapporto, malato, con gli anziani: abbiamo idea di cosa accade nelle cosiddette case di riposo? Siamo consapevoli delle solitudini di vecchi che vivono in casa in compagnia al massimo di una badante? Conosciamo il trascinarsi dei giorni di tanti anziani nell’oblio dei parenti?
Alla vecchiaia questa società sta gradatamente applicando la stessa rimozione che ha riservato alla morte, confinandola nell’osceno.
Abbiamo portato la morte fuori dalla vita moltiplicando le inquietudini che derivano da questa asportazione.
Stiamo operando lo stesso processo con la vecchiaia elevando a potenza quell’inquietudine.
Non vogliamo invecchiare e tantomeno morire. Ma non potendo sopprimere né la vecchia né la morte, le abbiamo espulse dal campo di gioco con una somma finzione di massa. Abbiamo generato la persuasione collettiva che non ci riguardano o addirittura l’illusione che non esistono.Vecchi e morti li abbiamo abbandonati negli ospizi e nei campisanti senza degnarli della misericordia di una visita, di un abbraccio, di un dialogo sia pure con il “cinere muto”.
E invece, vecchiaia e morte, morti e vecchi, fanno parte integrante dell’esistenza umana.
Lo abbiamo riscoperto con rimorso in queste atroci fasi dell’epidemia, quando nelle residenze per anziani il Coronavirus ha fatto strage o quando il divieto normativo ci ha impedito di dare l’estremo saluto ai cari estinti senza nemmeno un rito funebre.
Dove era e dove è finito il nostro “ethos” greco-romano e cristiano di Enea che porta in salvo sulle sue spalle il padre Anchise?
In cambio abbiamo il trionfo del fisico e del botox, la fiera delle vanità e del silicone, la rincorsa spasmodica al wellness e all’estetica, nel miraggio di non invecchiare come tanti anonimi Dorian Gray.
Ma il suo era un patto col diavolo. Il quale ci guarda sornione, sfregandosi le mani e pregustando la conquista a macchia d’olio, ogni istante, di un altro eterno giovane fuggitivo dalle rughe. Quelle rughe che Anna Magnani chiedeva al suo truccatore di non levarle, perché aveva impiegato la vita intera a conquistarle e le erano costate care una ad una.