(una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su “il Riformista” del 23 dicembre 2020).
Per i 209 miliardi del Recovery Fund europeo (Next Generation EU, per la precisione) destinati all’Italia, si minacciano crisi di governo, si auspicano governi di unità nazionale, si contrappone Draghi a Conte, si cerca di esautorare l’attuale maggioranza, si cerca, all’interno della attuale maggioranza, di conquistare più poltrone possibile. Gestire 209 miliardi fa gola.
In questa situazione si inserisce, prepotente, la questione meridionale. E riporta di fatto una discussione “brutta” (gestione soldi, poltrone) ad una almeno che abbia una dignità ed un respiro alti. Il destino del Mezzogiorno.
La UE ha assegnato a tutti i paesi dell’Unione una quota di finanziamenti, per superare/combattere la grave crisi dovuta al Covid, sostanzialmente sulla base di tre fondamentali parametri: disoccupazione 2015-2019, inverso PIL pro-capite, numero di abitanti. Dei 750 miliardi totali, una parte (360 miliardi) sono prestiti da restituire da parte di ciascun paese destinatario del prestito, una parte (390 miliardi) sono a fondo perduto, nel senso che verranno “restituiti” da tutti i paesi dell’Unione in maniera proporzionale alla loro partecipazione al bilancio della UE, indipendentemente da quanto abbiano ricevuto (ci possono essere paesi che “restituiscono” più di quello che ricevono, e sono in genere, come deve essere, i paesi più ricchi; l’Italia, al contrario, beneficerà di una consistente parte a fondo perduto, che dovrà restituire solo in parte). La cancelliera Merkel ha operato utilizzando il cosiddetto altruismo egoistico, ben nota categoria della psicologia, sapendo che i paesi più ricchi in questo momento devono aiutare i più deboli e disagiati, pena la fine dell’Europa, e che la Germania può avere vantaggi, anche in termini economici, produttivi, occupazionali, ecc …, solo da una Europa, se non ricca, almeno solida e non alla canna del gas.
Obiettivo dichiarato della UE, nello stabilire questa ripartizione tra i vari paesi aderenti, è (stato) quello di colmare i divari esistenti tra le varie regioni d’Europa: ad una Italia ipoteticamente “senza Sud”, una attendibile stima parla di una assegnazione di soli 74 miliardi. La UE ritiene che si possa uscire dalla crisi se, una volta per tutte, i vari stati riusciranno a risolvere i loro divari di sviluppo interno, avviando processi straordinari di perequazione e ammodernamento che coinvolgano le aree in maggiore ritardo.
L’Italia può utilizzare una diversa ripartizione? In teoria sì (ma solo per una parte dei 209 miliardi). Però si dovrebbe tener conto della volontà del Parlamento: a metà ottobre, sia in Senato, sia alla Camera, sono stati approvati documenti, che in maniera abbastanza esplicita richiamano il governo al rispetto dei parametri di calcolo e ripartizione adottati dalla UE: nel documento approvato in Senato, in una riunione congiunta delle Commissioni V e XIV, si sottolinea come “Il richiamo presente nelle Linee guida del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ndr) alla clausola del 34 per cento, ossia alla distribuzione dei fondi in ragione della popolazione residente, non appare sufficiente a operare l’atteso riequilibrio, essendo questa solo una misura minima di cautela volta a fissare un criterio di programmazione degli investimenti in proporzione alla popolazione residente. E quindi non sufficiente a promuovere la riduzione dei divari territoriali ancora oggi esistenti tra le diverse aree del nostro Paese, in cui persiste una differenziazione relativamente al PIL pro capite e al tasso di disoccupazione”; e, ancora, nel documento della V Commissione della Camera, si legge: “Appare necessario applicare, con eventuali aggiustamenti, il criterio di riparto tra i Paesi previsto per le sovvenzioni dal dispositivo di ripresa e resilienza (popolazione, PIL pro capite e tasso di disoccupazione) anche all’interno del Paese (tra le regioni e le macro-aree), in modo da sostenere le aree economicamente svantaggiate”
Contemporaneamente, associazioni, politici, studiosi, accademici, economisti, ecc …, in questi giorni stanno moltiplicando le prese di posizione, gli interventi, gli appelli, per chiedere con forza che è sulla base di quei parametri che in Italia devono essere ripartiti gli ingenti finanziamenti; una stima quindi prevede che il 65% circa (135 miliardi almeno) sia “assegnata” al Mezzogiorno.
L’AIM (Alleanza Istituti Meridionalisti) ha lanciato un appello/manifesto sul rispetto di questi parametri, appello a cui hanno aderito decine e decine di associazioni meridionaliste e in genere associazioni politico-culturali del Mezzogiorno, insieme con centinaia di singole personalità di tutto il Paese.
E’ nato alla Camera un intergruppo parlamentare sul Recovery Fund, con rappresentanti di tutti i gruppi (escluso il gruppo della Lega, va da sé!), che si mobilitano (e sperano di raccogliere almeno 100 deputati) e chiedono che il Recovery Fund sia per il Sud ciò che il piano Marshall fu per l’Italia nell’immediato dopoguerra, rilanciando nel contempo, con tale iniziativa, la centralità del Parlamento. Ancora, su iniziativa del presidente della Campania De Luca, si sono riuniti i presidenti di 6 delle 8 regioni meridionali, che hanno stilato un documento (di mediazione, visti i diversi orientamenti politici) in cui si chiede un immediato incontro al Governo (e al presidente della Conferenza Stato-Regioni, l’emiliano Bonaccini, che, evidentemente non li rappresenta più al meglio!) per discutere appunto della ripartizione dei fondi tra i territori, per chiedere il riconoscimento della necessità della riduzione del gap Sud-Nord, a partire da questo finanziamento straordinario e così ingente, sia pure nel corso di 5-6 anni.
Dicevo, 6 su 8 regioni: i presidenti di Sardegna e Calabria non hanno partecipato per altri impegni. Ah, sono entrambi leghisti! (nel momento in cui scrivo non è detto che non sottoscrivano, poi, il documento dei loro colleghi). Ancora, in Campania consiglieri regionali 5S presentano una mozione circostanziata, con riferimenti, dati, fatti, in cui chiedono al presidente della Regione De Luca di intervenire in ogni sede competente, in particolare nella Conferenza Stato-Regioni, per chiedere, anche nella suddivisione interna all’Italia, il rispetto dei parametri fissati dalla UE.
Molti di noi si stanno battendo per questo risultato, per sensibilizzare tutta l’opinione pubblica, a partire dal Mezzogiorno, per debellare una diffusa mentalità secondo la quale l’unico motivo per cui il Sud è in difficoltà, è perché non si è impegnato, o peggio! Insomma, non bisogna essere rassegnati ma continuare a denunciare e a battersi per la risoluzione della Questione Meridionale.
Le intenzioni del governo purtroppo non sembrano andare nella direzione auspicata: in un recente convegno organizzato da MERITA sul tema di un nuovo Sud a 70 anni dalla nascita della Casmez, il presidente del Consiglio Conte ha dichiarato che i soldi al Sud saranno destinati, e ha citato tra le opere previste, ad esempio, la linea ad AV Napoli-Bari: peccato che questo sia un progetto già finanziato per cui questa affermazione denuncia una costante: l’utilizzo di fondi straordinari (e/o perequativi) europei IN SOSTITUZIONE di finanziamenti nazionali; il ministro Amendola in una successiva dichiarazione ha di fatto confermato questa impostazione: “Stiamo lavorando bene con Bonaccini” (sic!) ha detto Amendola. Ed ha definito offensivi i rilievi, i dubbi, di chi denuncia il pericolo che il governo non finanzi adeguatamente il Mezzogiorno. Aggiungendo: non si tratta di soldi, ma di saperli spendere, su progetti validi. Afermazione quantomeno “sospetta”. Il tema (soldi sì, ma anche progetti per cui saperli spendere, presto e bene) peraltro è comunque interessante: se ne è parlato nel già già citato convegno di MERITA, ne hanno a lungo parlato in altre sedi personalità del calibro di Villone, Giannola, Bianchi. Non si può certo parcellizzare gli interventi, non si può affidare a singoli enti locali la gestione dei finanziamenti; ma tuttavia, questo spetta al governo nazionale, è indispensabile una regia ed una mente nazionale, centralizzata, che prospettando recovery e innovazione, come formalmente ed esplicitamente chiede la UE su alcuni assi strategici, faccia in modo che diminuisca il divario Sud-Nord, che ciascun intervento, anche piccolo, avvenga in un quadro generale di sviluppo e rinnovamento; una gestione che, secondo alcuni, può ricordare il piano Marshall, e l’idea e la gestione centralizzata della Cassa per il Mezzogiorno, per tutti gli interventi nel Sud. Specialmente riguardo a questa esperienza, si ricorda come dagli anni ‘50 agli anni ’70 (dagli anni ’80 in poi l’intervento della Casmez non fu più così “bello”!) il divario tra Sud e Nord diminuì in maniera costante, significativa, evidente, segno che l’idea, ancorché all’epoca criticata da socialisti e comunisti che la vedevano, non senza ragioni, uno strumento di raccolta di consensi elettorali, consentì davvero di avere un balzo in avanti significativo dal punto di vista economico, produttivo, civile, sociale, in termini di occupazione, del Mezzogiorno e dell’intero Paese La risoluzione della questione meridionale, evitando un ennesimo, intollerabile scippo al Sud, passa anche da questa enorme occasione del Next Generation EU.