(una versione sintetica di questo lungo articolo è pubblicata su Il Riformista del 29 settembre 2020)
L’istruzione, i saperi, la scuola, l’università, la ricerca, sono fattori strategici di sviluppo in ogni paese degno di questo nome. Fattori strategici di sviluppo economico e sociale, per l’aumento di una occupazione sempre più qualificata, per lo sviluppo della democrazia e della legalità. In Italia si discute da tempo di questo e, a parte alcuni noti “osceni” pareri, nessuno nega che tutto ciò sia vero. Ma spesso e volentieri, da almeno 30 anni a questa parte, le azioni effettive dei nostri governi, di qualunque colore politico, non sono conseguenti a tali affermazioni e “convinzioni”.
Un altro tema “centrale” per lo sviluppo del paese è senza dubbio la sua coesione territoriale: uno sviluppo “armonico” di tutto il territorio nazionale, che ovviamente tenga conto di situazioni storiche, di particolarità, di diverse competenze e necessità, è ovviamente necessario per il bene del paese, tutto intero. Parlo della questione meridionale: il paese cresce se il Sud cresce, nessuno può girarci attorno facendo finta di niente.
Ebbene, questi 2 capisaldi, a mio avviso, per un solido sviluppo democratico ed economico del paese, sembrano sempre disattesi.
In altre occasioni ho avuto modo di discutere delle “classifiche” degli Atenei, che, tutte, chi più chi meno, con alcuni fuorvianti parametri, indicano a studenti e famiglie come la stragrande maggioranza (per non dire la totalità) degli Atenei in cui converrebbe andare a studiare, sono nel Nord d’Italia. Un altro esempio di “parlare bene” (bisogna colmare il gap Sud/Nord) e “razzolare male”, anzi malissimo (indicare a decine di migliaia di giovani e famiglie la frequenza in Atenei del Nord, con tutto ciò che questo comporta).
Adesso si aggiunge un altro apparentemente “insignificante” atto di governo e del ministero dell’università e ricerca. E’ di questi giorni la diffusione della ripartizione delle capacità assunzionali da parte di ciascun Ateneo, quante nuove assunzioni, quante e di che tipo progressioni di carriera per dipendenti in servizio, (professori, ricercatori, tecnici e amministrativi, ecc ..). La ripartizione dei cosiddetti Punti Organico (PO) per il 2020.
La “complicazione” della tabella esplicativa che accompagna il relativo decreto, fa venire il dubbio che tale “complicazione” (una tabella enorme, quasi illeggibile, con ben 24 colonne di diverse informazioni, per ciascun Ateneo!) che si cerchi di “nascondere” dietro numeri, dati, algoritmi “oggettivi” (sic!) un intendimento politico ben chiaro. Il parametro che gioca il ruolo principale è ovviamente il turnover, quanti pensionamenti (meglio “cessazioni”) ciascun Ateneo ha avuto nel precedente anno. Un altro è il rapporto tra spese per il personale (gli “stipendi”) e le entrate dell’Ateneo (finanziamenti statali, e proprie). Si considera più “virtuoso” un Ateneo in cui tale rapporto NON supera l’80%. E meglio ancora se tale rapporto è ancora più basso! Il grosso dei finanziamenti “propri” in genere proviene dalle tasse degli studenti. Le tasse universitarie sono collegate per ciascuno studente alla sua situazione patrimoniale e reddituale (il noto ISEE): più alto è l’ISEE, più alte sono le tasse. Questo vale per tutti gli Atenei. Quanto poi ciascuno studente paga effettivamente, invece, dipende dalla politica del singolo Ateneo. In un recentissimo articolo, il prof. Gianfranco Viesti, ordinario di economia applicata all’Università di Bari Aldo Moro, fa notare essenzialmente due cose:
1) Alcuni (molti) Atenei stanno alzando le soglie ISEE al di sotto delle quali le tasse si azzerano o si riducono fortemente, con propria iniziativa “politica”, quindi rinunciando ad una parte di entrate (nazionalmente, a carico dello Stato, per così dire, ci sono solo le tasse degli studenti che non superano la quota ISEE di 20.000 euro).
2) I dati Istat (riferiti a qualche anno fa) stimano molto più alto l’ISEE mediano di studenti frequentanti Atenei del Nord rispetto ad Atenei del Sud. Una ulteriore dimostrazione che il reddito al Sud è inferiore (in alcuni casi significativamente inferiore) a quello del Nord.
Ebbene, gli Atenei del Nord recuperano più soldi dalle tasse rispetto a quelli del Sud. E quindi avranno un migliore (più basso) rapporto “spese per il personale”/”entrate generali”.
Tra l’altro, una benemerita politica di Ateneo che aiuti gli studenti a non pagare tasse o a pagarne molte meno, sarà punita nella ripartizione dei PO. Meno assunzioni e progressioni di carriera.
Non parliamo poi della quantità di finanziamenti che verranno assegnati a ciascun Ateneo, il cosiddetto Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), dove pure si perpetra una beffa, uno “scippo” del tutto simile. Ma questo non è argomento di queste considerazioni.
Nel corso degli anni tale ridotta possibilità di ampliare e migliorare servizi, di permettersi di allargare l’offerta formativa, di offrire “sicure” prospettive di carriera ai suoi dipendenti, allargherà sempre più il gap tra Atenei del Sud e Atenei del Nord (in generale; anche alcuni Atenei del Nord, pochissimi per la verità, soffrono di questa situazione) Ecco, si fa l’opposto di quello che si dice di voler fare. Poi si chiede ovviamente agli Atenei del Sud: perché siete “indietro” in varie classifiche rispetto agli Atenei dl Nord? Avete meno matricole, meno iscritti, meno studenti in corso, meno soldi, meno corsi di studio, meno corsi, pubblicate meno articoli scientifici, ecc …? Avrete minori finanziamenti! E’ il noto effetto san Matteo, studiato da sociologi, pedagogisti, economisti, ecc …per cui “a chi ha verrà dato e avrà in abbondanza mentre a chi non ha verrà tolto anche il poco che ha” (Matteo, 13, 12). “The rich get richer and the poor get poorer”, secondo gli anglosassoni.
Nel caso in esame, per il 2020, a fronte di cessazioni (in stragrande maggioranza pensionamenti) per 1961 PO totali, in base agli “algoritmi”, gli Atenei del Nord potranno assumere per 177 PO IN PIU’ rispetto alle cessazioni; quelli del Centro per 64 PO IN MENO; quelli di Sud e isole per 113 PO IN MENO.
Dal Sud (e dal Centro) è come se si spostassero al Nord (utilizzando la convenzione 1 PO corrisponde ad un professore ordinario; 0.7 PO ad un professore associato; 0.5 PO ad un ricercatore) quindi 177 professori ordinari o 253 professori associati o 354 ricercatori.
Questo è.
Il prof. Davide De Caro, associato di Elettronica alla Federico II, in suo articolo ha dimostrato che in assenza di tetto al turn-over nazionale (NON è possibile, allo stato attuale, “assumere complessivamente in Italia più persone, utilizzare più PO cioè, rispetto alle cessazioni), OVVIAMENTE SENZA SPENDERE UN CENTESIMO IN PIU’, si eviterebbe quantomeno questa attività “estrattiva”, l’ennesima, da parte del Nord nei confronti del Sud, consentendo a tutti gli Atenei “in regola” di raggiungere almeno il 100% del proprio turnover (o di più), MA SENZA TOGLIERE PO AD ALTRI! Altri suggeriscono di mettere un tetto all’assegnazione di PO, che non possa superare, o al più superare di poco, per ciascun Ateneo, il 100% delle cessazioni. (Già, perché dando uno sguardo alla tabella ministeriale, si vede come il Politecnico di Milano possa assumere il 245% delle sue cessazioni; l’Università di Bergano il 237%, l’Università di Bologna il 139%, mentre l’Università di Roma La Sapienza solo l’81%, e l’Università di Catania addirittura il 59%, restando alle Università più importanti, e ad alcuni esempi agli estremi, per così dire. Si badi che praticamente TUTTE le Università sono virtuose, nel senso che il rapporto spese-personale/entrate è inferiore all’80%! Ma questo significa SOLO che possono concorrere alla “riffa” dei PO!
Ebbene, queste due proposte, ragionevoli, di buon senso, sembrano una buona cosa, ma … vari governi, vari ministri, compresi gli attuali, NON HANNO MOSSO E NON MUOVONO UNA FOGLIA. E NON SPIEGANO PERCHE’.
Fortunatamente Gaetano Manfredi, l’attuale ministro dell’Università e Ricerca è un ex rettore, ex presidente della CRUI (la Conferenza dei Rettori delle Università italiane), è professore del più grande Ateneo del Mezzogiorno, la Federico II. Credo sia del tutto consapevole di questa situazione. Che va modificata. Politicamente. Conoscendolo personalmente, e avendolo visto all’opera, per portare la Federico II a migliorarsi in molti campi (strutture, offerta formativa, assunzioni e loro qualità, bilancio, ecc …), mi meraviglia che l’attuale ministro non abbia cercato di cambiare qualcosa rispetto al passato. Difficile che potesse cambiare rotta di 180 gradi; tra l’altro, non credo che lo voglia. La competizione “virtuosa”, la meritocrazia, gli algoritmi “oggettivi” (sic!) sono linee guida dell’attuale come dei precedenti ministri. Ma un … segnale, un … freno alla politica estrattiva del Nord rispetto al Sud, che ormai si manifesta in tutti i campi, come denunciano da anni economisti, costituzionalisti, meridionalisti, come Viesti, Giannola, Busetta, Luca Bianchi, lo stesso ministro per il Sud Provenzano, Villone, Patroni Griffi, Lucarelli, Marco Esposito, ecc …, da gennaio (nomina a ministro) ad agosto (quando ha preparato il decreto) qualcosa avrebbe potuto mettere in atto. Un tetto al turnover per ateneo (100%, 110%, o similia); lo “sblocco” del tetto al turnover nazionale, A SPESA INVARIATA; ecc …; in modo che i PO non venissero “estratti” dal Sud per andare al Nord.
In maniera “ingenua”? io credo che, in linea di principio, con tutti i caveat del caso, soldi e risorse vanno dati dove servono! Non si può premiare chi sta meglio e punire chi sta peggio. A meno che non sia proprio questo che si voglia fare.
In un altro caso (assimilabile in qualche modo a questo), l’uso del costo standard per studente per assegnare finanziamenti (FFO e diritto allo studio), è intervenuta la Corte Costituzionale, sentenza 104/2017 (con parere scritto di Marta Cartabia), per fare sì che gli “algoritmi” governativi fossero modificati, e fossero ri-assegnati decine e decine di milioni ad Atenei a cui erano stati di fatto sottratti! La principale motivazione (probabilmente riscontrabile anche in questo caso di distribuzione dei PO) è una arbitrarietà e “confusione” di fondo (senza una “definizione oggettiva” e riscontrabile) dei criteri iniziali su cui si basa poi l’intero “ragionamento”(!) tecnico, mentre secondo la Corte si tratta di decisioni politiche e non oggettive relative all’identificazione e al peso delle differenze tra i contesti economici, territoriali e infrastrutturali in cui operano le varie università, ottenendo (questa la conclusione) vantaggi per alcune Università indipendentemente dalle loro necessità, dalle spese da loro sostenute, perché mischiati confusamente criteri “tecnici” e scelte politiche.
In recenti articoli, infine, il prof. Massimo Villone, emerito di diritto costituzionale all’Università di Napoli Federico II, ed il già citato prof. Viesti, auspicano, nell’ambito della battaglia contro il regionalismo differenziato, in termini complessivi, su temi ampi e generali, un accordo tra regioni del Sud, segnatamente le più grosse ed importanti, Campania e Puglia, che tra l’altro hanno recentemente rinnovato i propri presidenti, riconfermando gli uscenti, con significativi consensi, per avanzare richieste e proposte al governo, alla conferenza Stato-Regioni. È bene che la classe dirigente, non solo meridionale, sia consapevole come certe incertezze (o addirittura calcoli opportunistici e di corto respiro) indeboliscono l’intero Paese, non solo il Mezzogiorno.
Una tale collaborazione, ad un livello “più specifico”, è già avviata. È partito da qualche mese il “Competence Center Meditech” che coivolge 5 atenei campani a 3 pugliesi, varie aziende, e la partecipazione istituzionale delle due regioni. Un utile strumento per avviare immediatamente progetti nell’area delle tecnologie digitali e di Industria 4.0 .
Ecco allora che, anche in questo nostro caso dei PO, caso “solo” universitario, è auspicabile un accordo saldo e convinto tra gli Atenei del Mezzogiorno, ovviamente tra i loro rettori, per sensibilizzare la CRUI (convincere, forse difficile), in modo da poter presentare al ministro idee, proposte, richieste, per modificare quanto meno questa “estrazione” di risorse dal Sud per trasferirle al Nord, e per fare sì che l’Università tutta, “dall’Alpi al Lilibeo” sia in grado di offrire ottima didattica, abbia al suo interno ottimi ricercatori, ecc …: non si cerchi più, insomma, di perseguire la politica di concentrare le “eccellenze” in pochi Atenei e Centri di Ricerca, riducendo la gran parte degli Atenei (in massima parte al Sud) a licei di secondo livello, o addirittura, per i più piccoli, abbandonandoli al proprio destino lasciandoli “morire”. Perché un ateneo NON è solo dispensatore di conoscenze, che è giusto a mio avviso avere in tutta Italia, ma anche baluardo di legalità e democrazia.
Gli Atenei del Mezzogiorno, uniti, troveranno un ministro attento a queste questioni, che agirà per il bene del Paese. Tutto. Ne sono sicuro.