Fino a che punto possiamo spingerci per ampliare i nostri orizzonti? Non è questa una domanda che ci siamo più volte posti? L’essere umano ha indubbiamente un bisogno insito di superare determinati limiti: affrontare nuovi rischi e nuove sfide è una nostra tendenza naturale e sarebbe strano se non la avessimo.
Esiste un punto di arresto? Di certo vi sono delle accelerazioni e delle frenate, poiché nulla può continuare a svilupparsi in maniera indefinita. Anche se la tecnologia continua a correre sempre più veloce, non è ammissibile che non vi sia anche la possibilità di rallentare o di frenare. Sarebbe come avere un’automobile con il solo acceleratore. Del resto la possibilità di una “frenata globale” l’abbiamo vissuta nell’arco negli ultimi decenni diverse volte: crisi dei subprime, recessioni ed infine la pandemia da Covid 19 e relativo lock down.
Il risk management prevede nella sua scala di valori i così detti cigni neri ed il Covid è uno di questi: eventi che, sebbene sia molto raro che si manifestino, quando si verificano determinano danni rilevanti! Il problema di fondo è che il momento in cui l’evento potrebbe verificarsi resta comunque una variabile indefinita nel tempo poiché non sappiamo con esattezza quando si verificherà.
Anche l’etimologia del termine “rischio” è incerta! Potrebbe derivare dal greco rhizikò (sorte, destino), ma anche dall’arabo rizq (onere o sostentamento). In entrambi i casi si lascia intendere un riferimento al concetto di incertezza che può assumere una connotazione negativa o positiva, a seconda dell’evolversi delle situazioni e delle circostanze. Il rischio risulta quindi per l’uomo come qualcosa di difficilmente valutabile con precisione in tutti i suoi aspetti e ciò ne costituisce da un certo punto di vista il suo fascino; nello stesso tempo il rischio mette in risalto le limitazioni della natura umana nelle sue diverse gradazioni, poiché non tutti gli uomini ne hanno la stessa percezione e modalità di gestione. La percezione del rischio varia infatti da soggetto a soggetto ed in base ai contesti ed alle proprie aspirazioni.
Per alcuni imprenditori, ad esempio, se non si intraprendono azioni con un’elevata probabilità di fallimento, vuol dire che non si sta rischiando abbastanza, tuttavia è altrettanto vero che non tutti gli imprenditori possono permettersi di fallire!
Queste diversità sono date sia dalle proprie capacità razionali di gestire il rischio ma anche da quelle di carattere innato ed istintivo che poco facilmente si lasciano rinchiudere in schemi. In un certo senso, come le altre creature viventi, l’uomo ha innanzitutto una percezione istintiva ed irrazionale del rischio. E’ questa percezione che ci permette a volte di fare delle scelte che sembrano irrazionali ma che possono in realtà salvarci la vita o tirarci fuori da situazioni apparentemente senza via di uscita. Poi, a differenza degli altri esseri viventi, abbiamo la possibilità di calcolare il rischio in maniera razionale.
Storicamente il calcolo del rischio è iniziato infatti da dinamiche di carattere assicurativo (nel medioevo venivano assicurate le spedizioni navali al fine di coprire eventuali perdite dovute alle incognite del mare); successivamente, con l’avvento dell’età moderna, l’accento si è spostato sul concetto di utile: ovvero rischiare per guadagnare, conferendo così al rischio quella connotazione di carattere finanziario che ritroviamo così marcata nei tempi attuali.
Se però ci muoviamo un po’ indietro nel tempo, nell’antica mitologia greca e latina, notiamo che il rischio era associato all’idea di “Eroe” e di “Impresa”: chi fosse riuscito a compiere un’impresa in stessa ardua, o se vogliamo anche con scarse probabilità di riuscita, sarebbe stato consacrato alla storia come Eroe. In questo caso il rischio andava corso non tanto per un guadagno materiale o utile personale (sebbene questo non fosse sempre escluso) ma piuttosto per adempiere ad una missione o mandato di origine non umana: ricondotto nella sua dimensione mitica il rischio diventa quindi qualcosa di molto diverso da come lo intendiamo oggi.
Così, nonostante siano trascorse svariate centinaia di migliaia di anni dalla presenza dell’uomo sulla terra, ancora oggi non siamo in grado di sapere con esattezza quali reazioni potrebbero corrispondere alle nostre azioni. Se è vero che ad ogni nostra azione corrisponde una reazione, che in fisica viene definita eguale e contraria, non è tuttavia facile determinare con precisione ed in anticipo le ripercussioni che le nostre azioni possono determinare in tutti gli ambiti. Questo perché i contesti cambiano continuamente e le problematiche che si presentano sono sempre diverse.
Gli aspetti dell’esistenza sono poi tra loro collegati in modalità a volte non immaginabili: non a caso si sente spesso parlare di “risvolti inaspettati” o di “effetti collaterali non previsti”. Più difficile da determinare sono poi quelle reazioni determinate in quei contesti che presentano un certo grado di complessità o in cui si sia prossimi ad un limite di tollerabilità. Ci riferiamo ad esempio quelle situazioni-limite che sono prossime ad una svolta qualitativa che non è stata però ancora realizzata.
Per fare un esempio mutuato questa volta dalla chimica, si pensi ad una soluzione che fino al momento precedente il conseguimento di un determinato punto di saturazione permette di sciogliere determinati elementi, che vengono pertanto diluiti, ma dopo il superamento del limite di saturazione detta soluzione non consente più di sciogliere gli stessi elementi, i quali vengono pertanto “precipitati”.
Nel linguaggio comune adoperiamo in genere per indicare queste situazioni limite modi di dire come ad esempio: “la goccia che ha fatto traboccare il vaso” etc. La natura poi nella sua complessità presenta diverse casistiche in cui si verificano dei veri e propri salti di discontinuità: si pensi ad esempio alla crisalide che diventa una farfalla.
Se ci spostiamo poi sul piano più impalpabile delle intenzioni degli esseri umani, sappiamo che in alcune circostanze la stessa intensità di una reazione può essere inaspettatamente spropositata rispetto all’intensità dell’azione: è questo il caso in cui si ritiene che si è verificata una “reazione spropositata”.
Restando sempre sul piano delle relazioni umane, vediamo ad esempio che non sempre siamo consapevoli che la nostra modalità di agire può risultare offensiva per altri o che in determinate circostanze possiamo adottare dei comportamenti controproducenti ottenendo degli effetti contrari a quelli che si sperava di ottenere nelle intenzioni originarie.
Insomma, le sfumature sono tante e le situazioni sopra riportate indicano come di fatto non si può non tenere conto sia delle circostanze esteriori o ambientali, sulle quali le nostre azioni hanno degli impatti, che delle intenzioni soggettive di chi ha determinato l’azione. Tutto ciò rende quindi non sempre ben percepibile apriori il rischio, i cui effetti, in alcuni casi, possono essere compresi purtroppo solo dopo il verificarsi dell’evento.
La scienza che dovrebbe venirci in soccorso nel prendere le decisioni in modo tale da ponderare in maniera adeguata i rischi che si stanno correndo nel prendere determinate decisioni è la statistica. Tuttavia, i limiti della statistica sono ben noti. Spesso la statistica non stabilisce un nesso tra la causa e l’effetto, (correlation is not causation) ma si limita ad analizzare i fenomeni e quindi a fare delle previsioni.
Inoltre, come abbiamo visto, l’analisi delle circostanze esterne da sola non è sufficiente: la statistica pone l’accento su un piano puramente quantitativo, ma esclude quello qualitativo che invece rappresenta per l’osservatore un interesse maggiore, poiché riguarda l’aspetto motivazionale/intenzionale, ovvero il motivo originario per cui viene compiuta una determinata azione. Detta motivazione, sebbene sia influenzabile da fattori esogeni e pertanto misurabili, non di meno può scaturire da motivazioni interiori e pertanto sfuggire all’analisi statistica.
In generale risulta poi evidente che il mero calcolo del rischio, privo di ulteriori approfondimenti, può diventare uno strumento utilizzato in maniera poco responsabile: la sola analisi quantitativa e statistica basata su un semplice bilanciamento sui pro et contra ovvero perdite ed utili e che non tenga conto di altri fattori, ad esempio quelli di carattere etico o di impatti ambientali o sociali, risulta per se stessa molto limitata e nel medio lungo termine poco sostenibile.
Consapevoli di queste limitazioni, la disciplina del risk management ha cercato di recente di dotarsi di nuovi paradigmi che tengano in conto per calcolare in maniera più dettagliata le variabili del rischio secondo uno spettro il più ampio possibile superando quello che viene definito una gestione dei singoli rischi (silos approach) per orientarsi verso una gestione integrata dei rischi (enterprise approach) che tenga conto quindi della loro interazione. Se ad esempio vi sono delle situazioni che mettono a rischio l’operatività di un’azienda (rischi operativi) questa situazione può incidere anche su un piano strategico-reputazionale e di conseguenza anche su un piano finanziario (perdite).
Così troviamo ad esempio tra le diverse tecniche di valutazione del rischio (circa 40) il metodo Cindynic, che considera assieme alla dimensione statistica anche altre dimensioni, quali quella epistemica, teleologica, deontologica ed assiologica valutando così eventuali connessioni ed interferenze o dissonanze e contrapposizioni di interessi. Il rischio viene così decontestualizzato dalla sola ottica di utile e perdita e rielaborato in un iperspazio pluridimensionale che viene definito da cinque assi ideali.
Questo approccio sebbene possa sembrare inizialmente astratto, in realtà apre le porte a nuove valutazioni che integrano l’aspetto statistico con nuove discipline che possono supportare il risk manager nelle fasi decisionali, ponendolo di fronte a realtà di carattere etico, deontologico ed epistemico.
Inoltre, poiché l’analisi delle dinamiche interne aziendali da sola non è sufficiente, ma è necessario capire anche come questa viene percepita all’interno del contesto sociale in cui opera la stessa azienda, è stato elaborato in ambito sociologico un modello di amplificazione sociale del rischio (SARF: social risk amplification frame) in base al quale risulta che il contesto sociale in cui si opera può sia amplificare che attenuare la percezione del rischio.
Infine, a rendere le cose ancora più complesse, interviene in maniera determinante il modo in cui il rischio viene comunicato. Entriamo quindi ancora una volta in un ambito interdisciplinare che lega il calcolo del rischio (con tutte le sue interconnessioni che abbiamo sopra definito) la comunicazione ed infine la sociologia.
La capacità di saper valutare accuratamente tutti i rischi non è meno importante del saperne cogliere tutte le interconnessioni, e così non è meno importante il saperlo comunicare sia all’interno che al di fuori dell’impresa: non basta sapere identificare i rischi e valutarne tutti gli impatti ma è necessario che gli stessi vengano correttamente comunicati ai soggetti interessati.
Si pensi ad esempio ai grandi errori di comunicazione commessi relativamente alla comunicazione del rischio della pandemia da Covid 19. Abbiamo visto sia sottovalutare il rischio di questo virus che sopravvalutarlo e, abbiamo visto, come ciò abbia alimentato ad esempio fenomeni irrazionali (social risk amplification) di accaparramento alimentare. Oggi la comunicazione dei rischi riveste un’importanza sempre più centrale sia all’interno che all’esterno dell’impresa ed errori di comunicazione possono causare dei notevoli danni reputazionali e conseguenti perdite finanziarie.
A ben ponderare il rischio ci può aiutare la logica. Un antico motto scolastico che dovrebbe oggi guidarci nelle nostre scelte recitava: “ex absurdo quodilbet”. Da premesse assurde ne può conseguire qualsiasi cosa. Per “absurdo” si può intendere ciò che è contrario alla ragione, ma in più in generale anche ciò che contraddice l’ordine razionale che guida l’universo.
Li dove vengono rotti determinati equilibri o compiute violazioni dell’ordine naturale è naturali che si verifichino delle reazioni che tendono a ripristinare lo stato di equilibrio precedente o ridefinire un nuovo stato di equilibrio.
Alla luce di questo semplice principio, non si dovrebbe mai dimenticare in un risk assessment di verificare se siano presenti nelle attività analizzate delle premesse assurde. Facciamo un esempio molto semplice: è stata una buona idea costruire a Fukushima delle centrali nucleari in prossimità del mare in un paese a rischio terremoti come il Giappone? Probabilmente un’analisi onesta della situazione ambientale ed un atteggiamento di prudenza unitamente ad un calcolo delle probabilità degli eventi negativi che si sarebbero potuti verificare in prossimità del mare, avrebbero potuto evitare il disastro.
Concludendo, speriamo di avere sufficientemente dimostrato che per quante analisi possiamo fare, resta sempre un elemento imponderabile al netto di tutte le tecniche di misurazione del rischio e questa imponderabilità costituisce in definitiva il rischio che si decide di accollarsi. L’unico modo che abbiamo per cercare di mitigare i rischi non è solo quello di settorializzarli ed analizzarli secondo le categorie attualmente adottate ma anche di considerarli come tra loro interdipendenti, poiché il verificarsi di un evento negativo può determinarne un altro e così via. Per questo motivo, più ampio sarà lo spettro delle variabili considerate e della loro interdipendenza tanto più sarà possibile fare delle previsioni accurate, anche se ciò dovesse in ultima analisi aumentare la complessità del quadro generale. Resta poi centrale la tematica della comunicazione del rischio e la sua amplificazione o riduzione sociale.
Insomma il rischio è sicuramente argomento interdisciplinare ed è difficile trovare qualche disciplina in cui non c’entri, finanche la teologia. Qualche esempio? Se Adamo ed Eva non avessero contravvenuto l’ingiunzione divina, mangiando del frutto Albero della Vita, pensando erroneamente di accedere ad una conoscenza superiore, non sarebbero stati cacciati dal Paradiso Terrestre; così, nella concezione islamica, se Iblis non avesse disubbidito all’ordine divino di prosternarsi di fronte ad Adamo, sarebbe rimasto il primo degli angeli.
In entrambi i casi, la perdita conseguita a seguito del mancato rispetto di un ordine divino, ha determinato la perdita di uno stato privilegiato, per cui il rischio, date le conseguenze estremamente negative conseguite, non era stato in entrambi i casi citati… ben ponderato!