Senza voler tornare troppo indietro nel tempo, per capire quello che in questi ultimi mesi sta accadendo, con la secessione dei ricchi, le richieste “eversive” di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, è indispensabile ricordare che già da pochi anni dopo l’unità d’Italia, negli ultimi anni del XIX secolo, e poi nel XX secolo, fino a dopo la seconda guerra mondiale, e fino ai nostri giorni, studiosi, intellettuali, politici, del calibro di Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Antonio Gramsci, Guido Dorso, Rodolfo Morandi, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi-Doria, Gerardo Chiaromonte, Giorgio Amendola, Francesco De Martino, Francesco Compagna, Giuseppe Galasso; e le principali forze politiche (in special modo il Partito Socialista e il Partito Comunista), ebbero chiara l’esistenza di una questione meridionale.
I tempi erano maturi e nel 1950, pur tra mille polemiche (comunisti e socialisti accusarono la DC di voler fare del Mezzogiorno un serbatoio elettorale, con politiche clientelari) Alcide De Gasperi istituì la Cassa per lo Sviluppo del Mezzogiorno, un Ente con un budget di circa 100 miliardi di lire l’anno, per 12 anni, 1951-1962, per un totale di circa 1280 miliardi di lire.
Economisti e storici sono abbastanza concordi nell’affermare che in quegli anni, almeno fino all’inizio degli anni ’70, la Cassa per il Mezzogiorno, pur tra errori e difetti, abbia costituito un elemento “virtuoso” nel superamento del divario Sud-Nord. Il luogo comune di una irreversibile condizione di un Nord sempre più “ricco”, autorevole, attivo protagonista in campo economico, e di un Sud eternamente “arretrato”, che non potrà mai essere “uguale” al Nord, è smentito dagli anni d’oro, se così si possono chiamare, della Cassa per il Mezzogiorno, in cui è documentato un solido e durevole processo di “convergenza” tra le due aree (Sud-Nord) del paese. Circa venti anni e i successivi venti dimostrano di come il Sud abbia partecipato da protagonista allo sviluppo, alla modernizzazione del paese, che da un certo punto si può dire incompiuto e/o interrotto. Tutto, prima e seconda fase, per precise scelte politiche ed economiche. Tra il ’50 ed il ’70 il nostro paese è stato comunque “governato” da una spinta all’unità. E che ha cercato di rafforzare l’economia delle regioni più “deboli”, con vantaggio come già scritto per crescita e sviluppo di tutta l’Italia. Tentando (almeno nello spirito e nelle intenzioni, ma anche mettendoci “soldi”) di aumentare uniformità, tra cittadini di qualsivoglia territorio, nella fruizione di “servizi” nazionali (salute e istruzione prima di altri). Gianfranco Viesti, ordinario di Economia Applicata all’Università di Bari Aldo Moro, afferma “quando l’Italia è divenuta sostanzialmente più unita, si è sviluppata maggiormente; il miglioramento di alcuni dei suoi territori ha favorito il miglioramento degli altri, in un processo a somma fortemente positiva.”
Economisti e storici sono concordi, inoltre, nell’affermare la necessità di una nuova, riproposta con forza, attuale centralità del Mezzogiorno, e che la riproposizione in grande stile della questione meridionale, di una nuova strategia complessiva che dal Mezzogiorno apra nuove e fondate speranze di crescita e sviluppo complessivo, del Sud e del paese tutto.
Giova a questo proposito ricordare come la Cassa per il Mezzogiorno, aveva, tra l’altro, l’obiettivo di progettare e poi realizzare un piano di interventi strategici, aggiuntivi ed organici in diverse (molte) zone del Mezzogiorno. Un Comitato tecnico e politico sopraintendeva a questo “piano”.
Tutti i successivi interventi (anni 80) fino alla formale chiusura della Cassa, anni ’90, e, ancora, successivamente, non sono stati più parte, per quanto criticabile e migliorabile, di un piano, frutto di una precisa scelta politica, ma appunto interventi “locali”, su questo o quel territorio, occasionali, sporadici, in alcuni casi, davvero, clientelari o addirittura esclusivamente elettorali. (Come ricordato sopra, già dalla istituzione della Cassa, questi rischi erano, forse ingigantiti, ma correttamente e “facilmente” indicati dai partiti della sinistra). I soldi sono stati dapprima “dirottati” alla riconversione industriale delle aziende del Nord; poi ha fatto irruzione, sotto l’incalzare della crisi, la pulsione secessionista della Lega Nord. La politica nei confronti del Mezzogiorno è radicalmente cambiata, la questione meridionale messa da parte, per far nascere una finta “questione settentrionale”, che è tutt’al più una questione derivata da quella, “reale”, meridionale: se si risolvesse la questione meridionale, difatti, molti autorevoli studiosi sono del parere che si risolverebbe immediatamente, automaticamente, la “cosiddetta questione settentrionale”. Il secessionismo di marca “bossiana”, respinto e messo a tacere anche da Forza Italia e Berlusconi, alleato negli anni ’90 e inizio 2000 con la Lega Nord, suggerì, in maniera scellerata, al centrosinistra, la riforma del titolo V, del 2001, quella cui si appoggiano, adesso, le richieste secessioniste di Veneto, Lombardia, Emilia-Romagna. Nel 2001 l’intento era sicuramente, per motivi elettorali, togliere attrattiva al richiamo localistico della Lega Nord, e presentarsi, come centrosinistra, anch’esso paladino di autonomia e decentramento; ma l’intento dei riformatori dell’articolo 116 della Costituzione era allora di elencare un certo numero di materie che le Regioni avrebbero potuto chiedere (ma si pensava, in apparenza ragionevolmente, ma ahimé troppo ottimisticamente, ad una o due o tre) in ragione di particolari esigenze territoriali diverse da quelle di altre Regioni. Nessuno pensava alla possibilità che una o più Regioni chiedessero di avere TUTTE le materie elencate nell’articolo 117. Da allora, infatti, si è arrivati al presente tentativo, più subdolo, più “furbo” e “nascosto”, ma con più probabilità di successo della secessione “formale” da Roma ladrona dell’epoca di Bossi, di una secessione nei fatti, puntando a “devoluzione”, poteri e soldi, raccogliendo il gettito fiscale “territoriale” (che NON esiste, essendo, esso gettito, esclusivamente individuale, come recita l’art. 53 Cost.).
Senza quindi voler “magnificare” oltre misura le azioni messe in campo per circa un ventennio dalla Cassa per il Mezzogiorno, non si può negare che in quel periodo l’investimento di capitali aggiuntivi e strategici per lo sviluppo del Mezzogiorno, aiutò a colmare il divario tra macroaree geografiche, e aiutò lo sviluppo economico, sociale, produttivo, e l’occupazione, in TUTTO il paese.
(1 – continua)